Atteggiamenti irragionevoli

 

CANTICO DEI DROGATI

 

(F. DE ANDRE’)

 

"O Tu che ignoro e sento..."

 

Fabrizio De Andrè descrive in questa sua canzone lo stato d'animo che un tossicodipendente prova guardando alla sua vita e alla realtà che lo circonda. De Andrè legge la tossicodipendenza quasi come una ‘ribellione metafisica o esistenziale’ nei confronti di una vita che appare determinata da uno sconosciuto che ti mette al mondo e ti fa sperimentare il limite e la morte. C'è dunque da una parte la consapevolezza del rapporto con questo Mistero da cui tutta la realtà dipende, ma dall'altra ancora una volta una opzione negativa che qualifica subito quel Mistero in senso ostile all'uomo. E' proprio questa opzione negativa che ostacola gravemente la possibilità di un rapporto costruttivo, di una scoperta positiva, nei confronti del Mistero.

Troviamo qualcosa di analogo in una poesia di Giovanni Pascoli, Il cieco:

Chi l'udì prima piangere? Fu l'alba.

Egli piangeva...

"Donde venni non so; né dove io vada

saper me dato...

Vano il grido, vano

il pianto. Io sono il solo dei viventi,

lontano a tutti ed anche a me lontano.

Io so che in alto scivolano i venti,

e vanno e vanno senza trovar l'eco,

a cui frangere alfine i miei lamenti;

a cui portare il murmure del cieco..."

[Si ha qui una traccia impressionante del concetto di peccato originale. Vale a dire, una lontananza originale dell'uomo dalla sorgente del suo essere. Ma è analogo a quanto dice Pascoli: "So che c'è, ma non gli arriva l'eco del lamento, del murmure del cieco". Qui c'è un passaggio bellissimo! Come è intensa in quest'uomo la necessità di essere conosciuto, di essere ascoltato, di essere in rapporto con qualche cosa, di essere in rapporto con un senso]

Ma forse uno m'ascolta; uno mi vede,

invisibile. Sè dentro sè cela.

Sogghigni? piangi? m'ami? odii? Siede

in faccia a me. Chi che tu sia, rivela

chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace

o si compiange della mia querela!

 

Egli mi guarda immobilmente, e tace...

 

Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento,

[questo è il Dio di Pascoli]

dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!

dimmi ove sono! ...

 

Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi

me, parla dunque: dove sono? Io voglio

cansar l'abisso che mi sento ai piedi...

 

di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio

n'odo incessante; e d'ogni intorno pare

che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,

 

tra un nero immenso fluttuar di mare"

 

Così piangeva: e l'aurea sera nelle

rughe gli ardea del viso; e la rugiada

sopra il suo capo piovvero le stelle.

 

Ed egli stava, irresoluto, a bada

del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni

d'oblio, volgeva; fin ch' - io so lo strada -

 

una, la Morte, gli sussurrò - vieni! -[1]

 

 

 

Ho licenziato Dio gettato via un amore

per costruirmi il vuoto nell' anima e nel cuore.

Le parole che dico non han più forma nè accento

si trasformano i suoni in un sordo lamento

mentre fra gli altri nudo io striscio verso un fuoco

che illumina i fantasmi di questo osceno giuoco.

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

 

Chi mi parlerà di domani luminosi

dove i muti canteranno e taceranno i noiosi

quando riascolterò il vento tra le foglie

sussurrare i silenzi che la sera raccoglie.

Io che non vedo più che folletti di vetro

che mi spiano davanti che mi ridono dietro.

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

 

Perchè non hanno fatto delle grandi pattumiere

per i giorni già usati per queste ed altre sere

e chi, chi sarà mai il buttafuori del sole

che ti spinge ogni giorno sulla scena alle prime ore

e soprattutto chi e perchè mi ha messo al mondo

dove vivo la mia morte con anticipo tremendo?

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

 

Quando scadrà l'affitto di questo corpo idiota

allora avrò il mio premio come una buona nota

mi citeran di monito a chi crede sia bello

giocherellare a palla con il proprio cervello

cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito

che qualcuno ha tracciato ai bordi dell' infinito.

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

 

Tu che m'ascolti insegnami un alfabeto che sia

differente da quello della mia vigliaccheria.

 

 

 

 

 


 



[1] Giovanni Pascoli, Il cieco, dai Primi poemetti